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Art Vibes – Let's share beauty | April 20, 2024

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CASTELNUOVO FOTOGRAFIA - Paesaggi in movimento | spostamenti | distanze | alterazioni

CASTELNUOVO FOTOGRAFIA – Paesaggi in movimento

| On 18, Set 2019

Spostamenti, distanze, alterazioni: settima edizione del festival internazionale di fotografia e arte contemporanea.

di Redazione Art Vibes


Picture: ©Michał Szlaga – CANTIERE NAVALE. DOCUMENTI DI PERDITA.


Un flusso inarrestabile di miliardi di esseri viventi attraversa la sfera terrestre misurandone il paesaggio. Piante e pesci, balene e farfalle, esseri umani e uccelli di ogni tipo si spostano, viaggiando da soli o in gruppo nell’aria, nell’acqua, sulla terra, lungo percorsi insidiosi, per cercare le condizioni stabili alla vita, per le mutate condizioni ambientali, o alla ricerca di nuovi luoghi dove sognare di ricostruire la propria idea di felicità.

Nell’ultimo weekend di settembre, sabato 28 e domenica 29, due giorni di inaugurazione animeranno il castello e il borgo medievale di Castelnuovo di Porto tra mostre, dibattiti, workshop, letture portfolio, talk, presentazioni, proiezioni e installazioni.

La manifestazione è realizzata dal Comune di Castelnuovo di Porto e curata dall’associazione culturale DIECIQUINDICI con la direzione artistica di Elisabetta Portoghese e il comitato scientifico composto da Michela Becchis, storica dell’arte e curatrice, Manuela De Leonardis, storica dell’arte, giornalista e curatrice, Simona Filippini, fotografa, curatrice e docente di fotografia.

Il festival, si muove da sempre per confronto reciproco tra le arti, oltrepassandone i confini, attraversandone i confini indefiniti, facendoli diventare vie di incontro e di scambio.
Le sale del Castello Colonna si aprono anche quest’anno all’esperienza artistica come motivo di rigenerazione sociale, culturale ed estetica. Le opere esposte, i dibattiti, i laboratori di inclusione sociale, i seminari gratuiti e le letture portfolio vogliono stimolare il dibattito sulla fotografia contemporanea e nello stesso tempo, favorire il dialogo tra le diverse comunità che interagiscono e si spostano nel paesaggio contemporaneo.

L’edizione 2019 si avvale della collaborazione di numerose gallerie di arte contemporanea e, come tradizione ormai da molti anni, di istituti di cultura stranieri.

 

Le mostre

Antonio Biasucci
Molti


Prima di partire per (l’isola di, ndr.) Chios era mia intenzione realizzare un grande polittico di mani e piedi dei rifugiati. Mi sembrava questo il modo più intimo, profondo, per presentarsi all’altro”. 



Antonio Biasiucci spiega la realizzazione di quello che è diventato il fulcro della mostra: The Dream, un grande polittico composto da ritratti di volti, mani e piedi di un gruppo di rifugiati nel Campo di Souda, nell’isola di Chios in Grecia, che il fotografo ha realizzato durante un viaggio intrapreso nel 2016.

Un lavoro che ci racconta il rapporto tra il fotografo e il gruppo di rifugiati, ma soprattutto ci racconta un passaggio di testimone tra Biasiucci e Rouaf, rifugiato curdo: “Rouaf ha condiviso subito il nostro progetto e ci ha accompagnati nelle tende dove abbiamo fotografato volti, mani e piedi di rifugiati provenienti da vari paesi. Rouaf è così diventato il mio secondo assistente […]. Purtroppo, dopo pochi giorni non ho più potuto continuare il mio lavoro in quel campo. Molti pensavano che le mie foto delle mani fossero delle foto segnaletiche, e perciò le persone del campo avevano cominciato a guardarmi con sospetto. […] A quel punto Rouaf mi ha detto “Il lavoro che stai facendo a Chios è molto importante, bisogna continuarlo, se tu non puoi entrare nel campo a fotografare ci andrò io. Tu mi insegnerai a fotografare così come tu fotografi, con le tue luci, con i tuoi tagli, i tuoi contenuti. Mi farai vedere e mi parlerai del tuo modo di intendere la fotografia”.

E così che Biasiucci si è trovato, letteralmente, a insegnare la sua tecnica fotografica: “L’indomani ho chiamato Rouaf e per tre giorni nella stanza del mio albergo gli ho insegnato a fare le mie fotografie, in manuale, poiché impossibile farle in automatico con quelle luci”. L’operazione ha dato vita a un’opera nell’opera, una storia nella storia, dal momento in cui Rouaf ha realizzato una serie di ritratti che, nelle parole di Biasiucci, “avevano le mie luci, i miei tagli ma erano fatte da lui: rifugiato che fotografava altri rifugiati. Lo si avvertiva”.

Un grandissimo lavoro sulla condizione del migrante e della sua memoria e sulle questioni che questa pone sulle identitá individuali, sulla catalogazione dell’essere umano, sui rapporti interpersonali e sulla fiducia. Un polittico che, in questa mostra, dialoga di proposito con un altro lavoro sulla memoria di Biasiucci: Codex. Nato dallo sguardo dell’artista su una delle più imponenti raccolte archivistiche esistenti al mondo come l’Archivio Storico del Banco di Napoli, Codex riconcilia l’Archivio – in quanto luogo della memoria e della sua trasmissione – e la città – come teatro della dimensione pubblica del vivere quotidiano – in una visione che riunisce al suo interno la dimensione intima delle singole identità celate nei documenti archiviati e l’esperienza collettiva della storia che lo spazio dell’archivio custodisce ed evoca.

Quelli di archivio sono numeri che da una parte rimandano al conto quotidiano dei migranti e dei rifugiati; dall’altra assumono la funzione vera e propria di codici, che sostituiscono i nomi e le identità individuali che si perdono nel processo di migrazione.

 

Antonio Biasiucci - The Dream

©Antonio Biasiucci – The Dream

 

Agnese Sbaffi
BORDERLAND


La frontiera tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda è lunga 499 km, attraversa migliaia di campi, strade e sentieri, fiumi, laghi e un centro abitato. Da circa venti anni, dalla firma del trattato di pace del Good Friday Agreement (1998), il confine è diventato invisibile. Unico indizio per riconoscere il passaggio da uno stato all’altro sono i segnali di limite di velocità: in chilometri orari in Irlanda e in miglia in Irlanda del Nord.

Nelle città più grandi dell’Irlanda del Nord esistono quartieri divisi da barriere, muri alti fino a otto metri e reticolati di filo spinato. Le Interface Area sono spesso caratterizzate dai peace walls o peace lines.

Le prime barricate furono costruite durante i Troubles (1969) come strutture temporanee, destinate a durare al massimo sei mesi. Nel tempo, invece, furono sostituite con muri più alti, più resistenti e più lunghi. Le ultime costruzioni risalgono agli anni 2000.

 

Agnese Sbaffi - Borderland

©Agnese Sbaffi – Borderland

 

Armin Greder
NOI E LORO


Cani riveriti e cani che si azzannano, abbuffate al ristorante e mendicanti affamati, crociere vip e scialuppe affollate alla deriva, sogni d’oro e letti sognati, drink sontuosi e pozze d’acqua piovana, scaffali straripanti e immondizia da rovistare, giochi usa e getta e carriolate di mattoni, cani al guinzaglio e bambini pastori, portatori del lusso e badanti della vecchiaia, giochi di guerra e guerra senza giochi, tuffi spensierati e naufragi in mezzo al mare, riversi indifferenti e riversi e morti, infanzie abbandonate tra comodi cuscini e vicoli ciechi, la tracotanza dei consumatori e la tristezza dei consumati.

A volte, noi e loro, vittime degli stessi desideri di vanagloria. In un ritmo di comparazione incalzante tra noi e loro, Armin Greder ci costringe a guardare questa geografia umana come in uno specchio riflesso.

A emergere, con disarmante evidenza, è l’ingiustizia del genere umano verso se stesso. Sono i fantasmi di un’alterità rifiutata, di una povertà rigettata e di sofferenze che non vogliono essere ascoltate

 

Armin Greder - NOI E LORO

©Armin Greder – NOI E LORO

Armin Greder - NOI E LORO

©Armin Greder – NOI E LORO

 

Chris Warde-Jones
I DABBAWALA DI MUMBAI


Da oltre 120 anni esiste in India un servizio di consegna di “pacchi pranzo” (tiffin boxes). A Mumbai questo servizio è particolarmente richiesto e ogni giorno vengono consegnati 200.000 pasti caldi da oltre 5.000 dabbawala (portatori di pacchi).

Il sistema nasce negli ultimi anni dell’800 per via del sempre più elevato numero di uomini che si trasferivano da casa per lavorare in ufficio. In mancanza di locali che potessero produrre pasti caldi, gli impiegati chiedevano alle mogli di preparare un pasto da consumare a mezzogiorno e per necessità è nato il servizio che col passare degli anni è diventata un’industria di grandi dimensioni.


I dabbawala sono tutti di tradizione Varkari, un gruppo induista che si trova nello stato di Maharashtra, e provengono da un piccolo villaggio vicino a Pune. Portano un kurta (divisa bianca) e un topi (copricapo) e ognuno appartiene a una squadra che poi divide i guadagni a fine mese. Ogni portatore guadagna circa €100 al mese e ogni consegna costa all’impiegato circa €0,80. L’operazione avviene sei giorni a settimana.
Il sistema consiste nel ritiro a domicilio delle quattro scatole impilate, la raccolta in un centro di smistamento, il trasporto in treno e la consegna dei pranzi nei luoghi di lavoro.

Tutto questo deve avvenire entro le 12.45 al più tardi. Su ogni scatola viene scritto un codice alfanumerico che indica esattamente la destinazione. Dopo pranzo le scatole vengono ritirate nei vari uffici e riconsegnate nelle rispettive case. L’operazione è talmente complessa che è stata oggetto di vari studi da parte di università occidentali, compresa quella prestigiosa di Harvard. Si dice che vi è solamente una consegna sbagliata ogni sei milioni. Uno di questi sbagli è al centro del film romantico “The Lunchbox” (2013) che racconta appunto di un’errata consegna di un pranzo con risultante relazione epistolare tra due persone che non si conosceranno mai.

 

Chris Warde-Jones - I DABBAWALA DI MUMBAI

©Chris Warde-Jones – I DABBAWALA DI MUMBAI

 

Daniela Ardiri
IO STO BENE. TANTI SALUTI E BACI


Se la fotografia è la traccia, la memoria di un ricordo – in grado cioè, di far affiorare alla mente un fatto, un evento, un volto e confermarci che, inequivocabilmente, quel fatto è accaduto, quell’evento ha avuto luogo, quel volto era lì – cosa è allora la traccia, la memoria di una fotografia? 
Forse è il ricordo di un ricordo. O, ancora meglio, la speranza che un’immagine fotografica possa coincidere con la nostra personale rievocazione: che quel particolare volto del passato sia stato proprio sorridente e aperto come ci sembra che fosse, o che quel paesaggio mantenga tutta la bellezza nonostante la patina del tempo.


Daniela Ardiri lavora così: parte da fotografie come deposito di storie familiari, per poi esercitarsi a ricordarle, estraendone i tratti, ricostruendone con il disegno i particolari osservati, le stoffe indossate da chi, da quelle istantanee, ci osservava ancora in silenzio.


In Auguri, il suo primo libro, ricostruisce con la manualità che è propria dell’artista – la mano che disegna, cuce, assembla e crea – un percorso frammentato ma coerente di immagini e superfici fatto di assonanze, rimandi, patchwork di stoffe che restituiscono all’immagine una tattilità tridimensionale. Insomma, un mondo intimo in cui Daniela, pagina dopo pagina, quadro dopo quadro, ci invita con delicatezza a entrare. 
In questo caso, il punto di partenza è un ritratto che la nonna Rosina aveva mandato a Giuseppe, suo fidanzato e poi suo marito, impegnato sul fronte della Seconda guerra mondiale. La fotografia la mostrava incorniciata da un cuore; la cartolina che l’accompagnava diceva “Ti desidero”, e il messaggio struggente del suo amore pudico era affidato alla formula “Io sto bene. Tanti saluti e baci”. Al destinatario il compito di intravedere quali affetti e quali affanni nascondessero quei saluti e quei baci.
Possiamo anche noi vivere il ricordo di famiglia che l’artista evoca. Ci muoviamo tra pareti colorate e sognanti, entriamo in un trompe-l’oeil di stoffe, quadri e cornici e forse riconosciamo nei tratti accennati, nel chiaroscuro dei visi abbozzati, profili a noi familiari; come se completassimo, ognuno per sé, le immagini che vediamo con quel che noi desideriamo ricordare della nostra personale storia.

Con il suo lavoro, Daniela Ardiri sembra compiere una sorta di identikit intermittente ricostruendo, con questi esercizi di memoria, i tasselli di un momento da ricordare che, in fondo, non è mai stato veramente vissuto ma che forse, proprio per questo, diventa per più struggente, più necessario. Proprio come necessaria è, a volte, una fotografia.

Alessandra Mauro

 

Daniela Ardiri - Auguri

©Daniela Ardiri – Auguri

 

Franco Cenci
UN GIORNO VERRÀ


Venient annis saecula seris, quibus Oceanus vincula rerum laxet et ingens pateat tellus Tethysque novos detegat orbes nec sit terris ultima Thule

(Giorno verrà, alla fine dei tempi, che l’Oceano scioglierà le catene del mondo, si aprirà la terra, Teti svelerà nuovi mondi e non ci sarà più un’ultima Thule)
Seneca, Medea


Migrazioni necessarie casuali e desiderate, tragiche e gioiose, andata e ritorno di vita e di morte, spostamenti di senso e di terre, ordinate e puntuali come quelle degli uccelli, improvvise e disordinate come quelle delle locuste. C’è un racconto di fantascienza in cui gli alieni vivono in una dimensione del tempo radicalmente accelerata e, quando arrivano sulla Terra non avvertendo alcun movimento negli umani li considerano “materiale inerte” di cui poter disporre a piacimento. Il botanico Stefano Mancuso lo lesse da ragazzo e cambiò la prospettiva del suo sguardo rispetto alla vita delle piante, apparentemente le più immobili tra le creature viventi. Tutto scorre. Stasi e immobilità sono prerogativa di morte.

L’installazione descrive attraverso il miracolo della partenza la condizione naturale del migrare che accomuna uomini e uccelli. Una serie di piccoli ritratti di corpi “volatili”, un trompe l’oeil di una panca in una sala d’attesa, un albero di ricordi, un ripiano con disegni e cartoline di viaggi: la migrazione unisce in un’iperbole i viaggi cinquecenteschi dei coloni, quelli contemporanei dei clandestini, i volteggi degli uccelli e i trasferimenti estivi della mia infanzia.

 

Franco Cenci - Un Giorno Verrà

©Franco Cenci – Un Giorno Verrà

 

Giovanna Silva
MR BAWA, I PRESUME


Il titolo della mostra trae ispirazione dal dialogo interiore che avviene ogni volta che l’autrice (Giovanna Silva) si trova di fronte ad uno degli edifici di Geoffrey Manning Bawa, uno degli architetti asiatici più importanti della sua generazione, colui che nel corso della sua lunga carriera, ha dato vita a quello che è oggi conosciuto globalmente come “modernismo tropicale”.

Silva non posa il suo sguardo sull’architettura ma si concentra piuttosto su quel labile confine in cui si incontrano mondi diversi, su quella linea di collisione accidentale si innesca un processo di annullamento del linguaggio dell’architettura in favore di luoghi che prendono forma lentamente nella nostra memoria attraverso la visione.

La mia passione per il libro è indissolubilmente legata alle altre due mie passioni: la fotografia e il viaggio. Ognuna di queste ossessioni è una scusa per le altre – viaggiare per fotografare e fotografare per viaggiare –, e si incontrano sulle pagine delle mie pubblicazioni. Non ho mai inteso la fotografia come entità estranea al libro.

Nel mio lavoro la fotografia nasce e cresce per diventare storia su pagina, trova il suo senso all’interno della narrazione editoriale. La parte più importante del mio lavoro (che è anche il collante tra il mio progetto personale e quello che pubblico con la casa editrice Humboldt Books) è la fase di editing. Tornare a casa con tante foto e costruire una sequenza. Mi piace pensare che i miei libri abbiano la possibilità di viaggiare più di me, che prendano strade che neanche avrei potuto immaginare e che raccontino qualcosa anche in mia assenza”.

Giovanna Silva

 

Giovanna Silva - MR BAWA, I PRESUME

©Giovanna Silva – MR BAWA, I PRESUME

 

Lina Pallotta
PIEDRAS NEGRAS


La globalizzazione, propagandata come strumento di ridistribuzione della ricchezza del primo mondo e una nuova utopia economica sociale, ha incrementato la diseguaglianza economica e diffuso una cultura omogeneizzata. Il sogno dei paesi poveri, sottosviluppati è stato alimentato attraverso la fabbrica dei sogni delle soap-opera e la manipolazione del desiderio e dei bisogni.

Nella relazione tra il Messico/USA, lo strumento principale di globalizzazione è stata NAFTA, ratificata dopo molti dibattiti e controversie nel 1994.
Quando persone si incontrano e culture si contaminano, la lotta per l’identità, per la sopravvivenza, diventa di fondamentale importanza. A Piedras Negras, una piccola città al confine messicano con il Texas, che ho visitato per la prima volta nel 1994, ho trascorso un po’ di tempo con l’assistente sociale Julia Quinones, un’ex operaia, che ora organizza le donne che lavorano nelle maquiladoras – le fabbriche di proprietà di corporazioni straniere dove un’incredibile 65% delle maestranze erano donne – dove prodotti a basso costo sono fabbricati per i mercati dei paesi industrializzati.

Grazie a lei ho avuto accesso alle case e alla vita personale delle donne delle maquilas e lentamente ho iniziato a documentarle. Questi scatti non mostrano eventi particolarmente importanti o significativi, ma piuttosto l’apparente banalità della vita quotidiana, i suoi ritmi si intravvedono attraverso gravidanza, vita domestica, feste religiose e il lavoro in fabbrica.

Questa scansione delle routine è il focus delle mie esplorazioni visive: credo fermamente che nel caos delle relazioni umane, nell’incessante interazione tra le persone, possiamo testimoniare la vita con tutti suoi conflitti, disperazioni, gioie e speranze. La fotografia per me non è mai un negoziare la “giusta distanza” ma la produzione di immagini é una conversazione, un momento di scambio di esperienza con il soggetto.

Il progetto maquilladora risuona dentro di me come lo specchio delle mie memorie, svela la connessione tra il mio mondo – l’Italia del Sud e il Messico.
Non ho alcuna pretesa di rappresentare la “verità oggettiva” che conferma opinioni comprensibili o precostituite; queste immagini sono il risultato di una visione personale che implica prendere una posizione, che include le mie esperienze e la mia appartenenza. una visione che imposta il tono, il colore e la forma del mio lavoro.

 

Lina Pallotta - PIEDRAS NEGRAS

©Lina Pallotta – PIEDRAS NEGRAS

Lina Pallotta - PIEDRAS NEGRAS

©Lina Pallotta – PIEDRAS NEGRAS

 

Luca Bragalli
LITORALIS


La mostra Litoralis, presenta l’attenta indagine del fotografo Luca Bragalli realizzata a partire dal 2009 lungo il litorale romano che si estende ad ovest della capitale per circa 16000 ettari tra terreni agricoli, coste e boschi. Una tipologia di paesaggio che si presta a diverse osservazione: Bragalli si inoltra nel suggestivo paesaggio e attraverso il sapiente uso del colore ci restituisce un’analisi visiva del territorio che ha stretta connessione con il celebre e indimenticato Viaggio in Italia di Luigi Ghirri: “L’intenzione è ricomporre l’immagine di un luogo, e antropologico e geografico, il viaggio è così ricerca e possibilità di attivare una conoscenza che non è una fredda categoria di una scienza, ma avventura del pensiero e dello sguardo.”
Dunque anche in questo viaggio tutto italiano, lungo la costa laziale, tra Roma, Fiumicino, Cerveteri, inevitabilmente il percorso diventa ricognizione consapevole di un territorio, riflessione su identità e integrità dei luoghi ripresi.

E’ un “patrimonio di inestimabile valore” quello osservato, che alterna siti archeologici a riserve naturali, ma che ci appare frammentato e scomposto dal sopraggiungere incalzante e aggressivo dell’urbanizzazione, risalente ai primi decenni del novecento, e ancora in corso di adattamento, dove gli insediamenti edilizi hanno prevaricato e forzato il paesaggio originario. Si vedano le immagini delle memorie, il Tempio di Portuno, la Torre Flavia nei pressi di Ladispoli, suggestioni di paesaggi carichi di bellezza e ricchi di storia, siti le cui rovine riportano ad echi di antichi splendori.


Non solo percorso narrativo per immagini, ma progetto di mappatura del territorio che il fotografo persegue ormai da più di dieci anni. Ad evidenziare le contraddizioni di questi luoghi le fotografie di Bragalli si animano di elementi simbolici ed emblematici: le erme mal conservate dell’antico monumento, che si ergono imbarazzanti per l’incuria, tra il terreno incolto e inaridito, i campi coltivati a pochi centinaia di metri dai palazzi abitati, le recinzioni mal sistemate che dovrebbero tutelare o nascondere ma appaiono allo sguardo come ferite dolorose, disseminate lungo la spiaggia, tra le dune e il mare.


Sono la testimonianza di un paesaggio sempre in bilico tra bellezza naturale e degrado , si vedano le immagini delle molteplici specie che abitano il litorale, poi le dune della spiaggia di Capocotta appena scomposte dal vento o dalle poche orme umane.


Immagini destabilizzanti dove la ripresa rassicurante della fauna locale o di quei tratti di territorio quasi inviolato si alterna a “presenze” che documentano la contaminazione con la città poco lontana e le urbanizzazioni limitrofe, ci sottolineano il continuo mutamento dei luoghi la crescita compulsa dei territori al confine con la capitale, l’urgenza di una riqualificazione e di scelte mirate da parte delle amministrazioni. 


E’ la conferma che quel viaggio in Italia proposto da Ghirri e dagli altri fotografi, iniziato più di trenta anni fa, non sia mai giunto a conclusione, i giovani fotografi italiani, che prediligono la ripresa del paesaggio, ereditano la coscienza e la consapevolezza che l’espressione fotografica racchiude in sé, soprattutto se il paesaggio in questione è quello meno tutelato e fuori dai suggestivi centri storici delle nostre città, il territorio periferico, quello delle campagne confinanti, territorio che resta sospeso e ancora in bilico in cerca di identità e definizione.



Silvana Bonfili

 

Luca Bragalli - LITORALIS

©Luca Bragalli – LITORALIS

 

Mario Boccia
POVERI PER FORZA


Noi siamo veramente i figli maggiori del mondo, porosi a tutti i respiri del mondo, aria fraterna di tutti i respiri del mondo,letto senza dreno a tutte le acque del mondo, favilla del fuoco sacro del mondo,carne della carne del mondo palpitante del movimento stesso del mondo.
Aimé Césaire


Il futuro dell’Africa è nero” recitava uno slogan di AMREF da cui uno dei miei viaggi ha preso le mosse. Uno slogan che poteva essere l’affermazione di una nuova, orgogliosa “negritudine” o piuttosto la constatazione amara di ciò che è.

500 anni di danni, dalle razzie schiaviste al moderno mercato globale, passando per il colonialismo, hanno messo in ginocchio l’Africa. L’arroganza aggressiva del pensiero occidentale ha attaccato le culture autoctone cercando di omologarle a modelli stranieri, spesso in conflitto tra loro. Non un confronto sui valori che arricchisce gli interlocutori, ma ripetute imposizioni, violente e irrispettose.

Secoli di conquiste militari, penetrazione economica, sfruttamento delle risorse, evangelizzazioni o islamizzazioni forzate, hanno messo in crisi orgoglio e dignità, cercando di ridurre l’essere neri a complesso d’inferiorità.

Molti governi locali sono corrotti, è vero, ma lo erano anche i regimi coloniali bianchi che li hanno preceduti e di cui ancora il continente paga il prezzo, mentre nuovi colonialismi economici si affacciano. Gli allarmi che fino a poco tempo fa si sono pensati “apocalittici”, sono ormai realtà. Una natura straordinaria, che sembrava capace di assorbire tutti gli attacchi che le erano portati, è stremata, sfruttata e i danni prodotti sembrano già irreversibili. Il lago Vittoria, grande due volte e mezza la Sicilia, è un’immensa pozza inquinata.

Viaggiare in Africa, fuori dei circuiti surreali del turismo organizzato, è un’esperienza devastante. Non si tratta di fronteggiare l’emergenza, ma la normalità violenta e rapinatrice di un modello di sviluppo sbagliato. L’Africa muore di fame, sete, inquinamento, malattie, guerre per permettere a noi di morire d’indigestione e conservare i nostri standard di vita. Non si tratta di sotto-sviluppo, ma di sovra-sfruttamento.

Il Kenya è per molti un paese ricco, bene organizzato, luogo di vacanze. Girandoci dentro scopri il bluff: il Kenya, che pure sta meglio di altri paesi, può esplodere o implodere sommessamente. Ero passato per Nairobi l’ultima volta nel ’94, non potevo immaginare che la situazione sarebbe potuta peggiorare.

E’ un circolo vizioso: l’attacco alla natura produce cambiamenti climatici, cambiano le stagioni, la faccia della terra (siccità, inondazioni, erosioni), si estinguono animali, si diffondono nuove malattie. Cambiano le attività di uomini e donne che cercano di resistere. Le economie rurali, anche quelle di sussistenza, entrano in crisi lasciando il posto a milioni di “profughi ambientali” che abbandonano le loro terre per finire nell’inferno delle baraccopoli urbane.
Questo l’intreccio tra clima e povertà. Ma la povertà di milioni di Africani, loro, è garanzia di sviluppo, profitto e privilegi, seppur sempre più accentrati nelle mani di pochi, per noi.
Non vale solo per l’Africa, ma per tutto il pianeta. Il conflitto tra una minoranza sempre più ricca e una maggioranza sempre più povera è inevitabile.

La terra è una e saremo tutte e tutti indifferentemente a pagare un prezzo alto se non consideriamo il futuro come qualcosa di più lungo della nostra aspettativa di vita residua, ignorando chi verrà dopo.
Smettiamo di chiamare “modello di sviluppo” qualcosa che per soddisfare il mondo di sopra impoverisce quello di sotto. Possibile che non sia chiaro a ciascuno che ci stiamo comportando come una muffa parassita che distrugge la pianta dalla quale si nutre? L’Africa non ha bisogno di elemosina, ma di giustizia. Tutti ne abbiamo bisogno.

 

Mario Boccia - Poveri Per Forza

©Mario Boccia – Poveri Per Forza

 

Michał Szlaga
CANTIERE NAVALE. DOCUMENTI DI PERDITA


l’Istituto Polacco di Roma, Galleria Interzone e Istituto Adam Mickiewicz, sono lieti di presentare la mostra Cantiere navale Documenti di perdita del fotografo polacco di Danzica Michał Szlaga

Il progetto raccoglie un ciclo di 32 fotografie. Dal 2000 i lavori dell’artista Michał Szlaga ricorrono ossessivamente al tema del cantiere navale di Danzica, percepito come la culla, la prosperità e il declino del movimento Solidarność, nonchè l’esempio della prospera industria navale dell’epoca i cui resti, meritano oggi, di essere immortalati e ricordati in fotografia.

Il cantiere di Michał Szlaga è un paesaggio architettonico post-industriale in continua evoluzione, pieno di persone e tracce di storia; paesaggio che l’artista documenta usando la fotografia e il video. Dopo il grande entusiasmo dei primi anni duemila, quando gli spazi del cantiere navale diventarono in parte luogo di produzione artistica che ospitava importanti istituzioni non profit – spesso creati dagli artisti stessi -, Michał Szlaga insieme ad alcuni amici si trasferì in uno degli edifici del cantiere, la Kolonia ArtystowLa Colonia degli artisti.

Fin dal principio si investì molta fiducia e tanta volontà nell’idea di preservare e trasformare il cantiere e l’intera zona in un cuore storico, ma purtroppo solo dopo qualche anno un progetto industriale, che includeva il piano di demolizione della maggior parte degli edifici del cantiere navale, ha fatto si che gli investitori decidessero di abbattere le costruzioni e anche la ben conservata Villa del Regista, costruita nel 1888, che ospitava la Kolonia Artystow.

Le fotografie raccolte in Cantiere navale, documentano una perdita dolorosa, e sono il tentativo di preservare l’immagine del cantiere navale, cantiere costruito nel diciannovesimo secolo, un luogo che non rappresenta solo uno tra i lasciti industriali più impressionanti d’Europa, ma è anche la memoria collettiva di un importante sito industriale e creativo di Danzica.

Il Cantiere, una volta enorme piazza di lavoro per oltre 15.000 lavoratori, vide nascere nel 1980 il sindacato Solidarność che avrebbe dato origine al movimento democratico in Polonia e contribuito alla caduta del blocco sovietico. Negli ultimi anni molti edifici storici del cantiere sono stati abbattuti, alcuni spazi sono stati convertiti in complessi residenziali di appartamenti loft con vista sull’acqua.

 

Michał Szlaga - CANTIERE NAVALE. DOCUMENTI DI PERDITA

©Michał Szlaga – CANTIERE NAVALE. DOCUMENTI DI PERDITA

Così descrive le fotografie Alicja Gzowska (docente presso l’Institute of Art History dell’Università di Varsavia):

«...edifici, sale, componenti infrastrutturali – ancora esistenti o già completamente distrutti – vengono catturati in uno stato di rovina, in un momento architettonico di transizione. Oggetti desolati con riquadri in frantumi trasformati in cumuli di macerie da strumenti sofisticati, diventano, insieme agli alberi sradicati, una rappresentazione spaziale della perdita, una forma fisica di tragedia. La documentazione testarda di Szlaga non è né una forma di ricordo dei Cantieri, né un modo per salutarli. Questo record di caduta e rovina, secondo Adam Mazur, consente di recuperare la dimensione sublime ed epica della storia che è stata giocata qui. Questa affermazione, in particolare il riferimento al concetto di sublime, collega il ciclo di Szlaga ad un iconografia transistorica di devastazione e catastrofe che si è sviluppata sin dalla scoperta delle rovine dell’antica Pompei.»

 

Michał Szlaga - CANTIERE NAVALE. DOCUMENTI DI PERDITA

©Michał Szlaga – CANTIERE NAVALE. DOCUMENTI DI PERDITA

 

Natalia Saurin
THE KITCHEN, a cura di Manuela De Leonardis con il patrocinio di IILA – Organizzazione internazionale italo-latino americana.


Per Natalia Saurin la cucina è l’officina creativa in cui sperimentare le possibilità dei linguaggi artistici – musica, fotografia, video, installazione – condividendo l’affermazione di matrice femminista che la sfera personale è politica.

Erede, in questo, dell’ironia aderente al reale di Martha Rosler, dell’irriverenza trasformista di Cindy Sherman (ma senza l’accento sul grottesco), dell’indagine conoscitiva di Francesca Woodman con quel suo dinamico andamento narrativo e, guardando ai nostri giorni, del metalinguaggio carico di suspense e inciampi emotivi di Mona Hatoum.

In particolare in The kitchen (2008-2009) la tovaglia a scacchi bianchi e rossi diventa sfondo e palcoscenico dell’esistenza umana con le sue inquietudini del quotidiano. “Sono partita da opere iconiche nell’arte contemporanea come Gli amanti di Magritte e i “tagli” di Lucio Fontana per riproporli traslati in una dimensione altra. Una migrazione di senso.” – spiega l’artista – “Il quadrettato è codice di qualità e tradizione, regala sicurezza, abbondanza e conferisce un’identità comune. Una riflessione sullo stereotipo e sulle gabbie che siamo capaci di crearci.

Manuela De Leonardis

 

Natalia Saurin - THE KITCHEN

©Natalia Saurin – THE KITCHEN

 

Paola Agosti
EL PARAÍSO: ENTRADA PROVISORIA


Più di quarant’anni fa, lavorando alla trascrizione visiva de “Il mondo dei vinti” di Nuto Revelli, ero rimasta colpita dalle testimonianze di quei contadini cuneesi che dal Piemonte emigravano nelle Americhe e in particolar modo in Argentina.
Verso la metà degli anni Ottanta fui invitata ad esporre quelle fotografie in una galleria di Buenos Aires. Restai impressionata dal grande afflusso di visitatori di origine piemontese.

Quelle persone riconoscevano i luoghi da cui erano partiti i propri antenati, ritrovavano nelle mie immagini ricordi di racconti uditi nell’infanzia, mi facevano un’infinità di domande e mostravano un coinvolgimento emotivo che certo andava al di là dell’interesse per le fotografie in se stesse. Era un ricercare le proprie radici, spesso accompagnato da una nostalgia struggente per un mondo lontano, sconosciuto ai più, ma da tutti incondizionatamente amato.

Decisi dunque di partire per l’Argentina alla ricerca di quella gente e nella primavera del 1987 fotografai i biellesi residenti a Buenos Aires. Nacque un primo libro “Dal Piemonte al Rio de La Plata”. Tornai in Argentina più volte tra il 1989 e il 1991 per esplorare la cosiddetta “Pampa gringa”, immenso triangolo di pianura compreso tra le città di Cordoba, Rosario, Santa Fe, che i “gringos” piemontesi e altri italiani iniziarono ad abitare, coltivare e trasformare dalla seconda metà dell’Ottocento. Un orizzonte piatto e sfuggente, dove, a grande distanza, si innalzano cartelli stradali a indicare che una meta è stata raggiunta: “Cavour”, “Nuevo Torino”, “Piamonte”, “Silvio Pellico”.

Paesi di non molti abitanti, nati per la maggior parte in Argentina da antenati piemontesi. Visitai più di trenta paesi e cittadine, percorsi seimila chilometri con una Fiat 600 degli anni Sessanta. Fu proprio un cartello al lato di una strada provinciale, un giorno che la Fiat 600 sprofondò nel fango e dovetti andare a cercare sotto la pioggia un trattore che mi tirasse fuori da quell’impiccio, a suggerirmi il titolo di questa mostra.

Queste fotografie, dunque, altro non sono che il resoconto di un mio personale viaggio sentimentale alla scoperta di fisionomie, atteggiamenti, profili per noi così familiari da rendere i protagonisti di queste immagini nostri fratelli e farci ricordare, oggi più che mai, che anche noi siamo stati migranti. Come coloro che arrivano sulle nostre coste cercando in Italia e in Europa il Paradiso (entrata provvisoria?) e quasi sempre trovano ben altro.

El paraíso: entrada provisoria alla settima edizione di Castelnuovo Fotografia festeggia i cinquant’anni anni di carriera di Paola Agosti insieme alla mostra intitolata Cronache e leggende, a cura di Matteo Di Castro, che inaugurerà a Roma martedì 1 ottobre (e visitabile fino al 16 novembre) presso s.t. foto libreria galleria.

 

Paola Agosti - EL PARAÍSO: ENTRADA PROVISORIA

©Paola Agosti – EL PARAÍSO: ENTRADA PROVISORIA

Paola Agosti - EL PARAÍSO: ENTRADA PROVISORIA

©Paola Agosti – EL PARAÍSO: ENTRADA PROVISORIA

 

Paolo Mazzo
MINA DE IDEI ANINA


ANINA è una ex città mineraria sede di una miniera di carbone che ha operato dal 1793 fino al 2007 dotata di quello che si narra essere stato il pozzo di estrazione più profondo dell’est Europa. Una volta esaurita la miniera, Anina si è trasformata nella classica città post industriale in cerca costantemente di una nuova identità, di un nuovo senso della sua esistenza senza rinunciare alla forza e all’importanza del suo passato.

La città di Anina rappresenta al giorno d’oggi non solo un punto di riferimento nella storia dello sviluppo industriale nella regione dei Monti Banat (sud-ovest Romania), ma è anche forse una delle più interessanti manifestazioni dell’utopia socialista sul territorio. Durante i suoi anni d’oro, Anina poteva essere considerata quasi un modello ideale di sviluppo economico e prosperità, con una florida comunità multi-etnica, finché nel 2006 una decisione del governo ha decretato la fine dell’attività industriale, fermando per sempre nel tempo e nello spazio la vita stessa della città. Nonostante i grandi successi della sua industria, la comunità di Anina era sostanzialmente composta da persona che “sono state portate” lì, e anche oggi tantissimi sentono di essere lì solo “di passaggio”.

Quello che resta oggi della città mineraria di Anina è solo un ricordo sbiadito. Le tracce materiali dell’industria stanno lentamente sparendo, insieme alla comunità locale: la città non ha più un ospedale, il teatro (casa de cultură) è chiuso dal 2010 “per lavori”, il cinema all’aperto è stato trasformato in un mercato agro-alimentare, anch’esso parzialmente abbandonato, mentre la piscina all’ aperto è ormai in rovina. Gli abitanti di Anina sono principalmente impiegati nella lavorazione del legno, nell’industria alimentare e nelle poche officine ancora esistenti.

 

Paolo Mazzo - MINA DE IDEI ANINA

©Paolo Mazzo – MINA DE IDEI ANINA

 

Riccardo Zipoli
IL TEMPO DELLA NOSTALGIA, OMAGGIO A ANDREJ TARKOVSKIJ, a cura di Manuela De Leonardis con il patrocinio dell’Università Cà Foscari.


Luoghi e tempi della memoria sono il fil rouge della mostra Riccardo Zipoli. Il tempo della nostalgia: omaggio ad Andrej Tarkovskij che il fotografo dedica al grande cineasta russo il quale affronta, nei suoi film, il tema delle radici e dei legami con la terra e con la famiglia. Ispirazione poetica e rigore compositivo sono le qualità che “assumono un inconfondibile e autonomo valore artistico, pure al di fuori del loro contesto narrativo”, come scrive Zipoli. Partendo da questa considerazione, si è sviluppato il progetto fotografico costruito sul doppio binario della citazione e dell’evocazione. Una migrazione dai film di Tarkovskij, isolando alcune “immagini fisse” messe in dialogo con altre scattate da Zipoli in momenti e in luoghi diversi, dalla Russia alla Svezia, da Cuba all’Iran.

Immagini attraversate da una comune atmosfera malinconica e nostalgica. “Il progetto” come ricorda Zipoli “è organizzato tematicamente per coppie, mirando a creare un’incertezza che potesse testimoniare l’uniformità del materiale e, di conseguenza, l’efficacia delle scelte”. L’uniformità è enfatizzata da un lieve effetto pittorico realizzato su tutte le immagini. Le prime sei coppie sono formate da un’immagine di Tarkovskij e da una di Zipoli (a evidenziare il legame fra i due autori), le seconde sei hanno immagini solo di Zipoli (a testimoniare come lo spirito tarkovskijano condizioni il suo modo di fotografare).

Manuela De Leonardis

 

Riccardo Zipoli - Il Tempo Della Nostalgia

©Riccardo Zipoli – Il Tempo Della Nostalgia

 

Silvia Levenson
OTROS CIELOS, OTRAS PAMPAS , a cura di Manuela De Leonardis con il patrocinio dell’Università Cà Foscari.


Nello scenario in cui ci introduce Silvia Levenson il mondo degli adulti è spesso filtrato dallo sguardo dei bambini. E’ così anche in Bajo la Cruz del Sur y Casiopea e Otros cielos, otras pampas, dove vediamo il volto di un bambino e quello di un uomo alternarsi ai dettagli delle scarpe usurate, alle mani e alla foglia, a cui è affidata la continuità del racconto.

L’artista analizza, decostruendola, una foto della famiglia materna emigrata in Argentina all’inizio del secolo scorso, proprio come quella paterna: ebrei che nel 1904 erano sfuggiti ai pogrom della Russia zarista. “Ho cercato di immaginarli: sperduti nelle pampas argentine sotto un cielo che non era il loro. Ho pensato a me quando sono arrivata in Italia, confusa e coraggiosa cercando di imparare a orientarmi in un mondo a me sconosciuto.

Silvia Levenson ricostruisce un momento biografico particolarmente difficile, quando nel 1981 è costretta a lasciare l’Argentina per motivi politici. “Ricordo che per abitudine guardavo il cielo e cercavo con lo sguardo la Cruz del Sur. Cosa guardavano i miei antenati? I nonni paterni russi? I nonni materni argentini? Conosco poco della loro storia, ma so con certezza che non hanno viaggiato per turismo, ma come migranti, segnando la terra e creando nuove storie.” Il tema del ricordo/oblio è centrale nella sua poetica attraversata da quell’ironia che le permette di affrontare argomenti dolorosi, nel tentativo di illuminare la parte oscura della realtà. “Tutti noi emigranti cerchiamo di dimenticare, poi ad un certo momento capiamo che non funziona. Ma abbiamo talmente voglia di lasciarci dietro quello che ci ha fatto soffrire, e non apparire così diversi dalla società in cui vogliamo inserirci, che un po’ corriamo questo rischio. Ma ognuno è quello che è.

Manuela De Leonardis

 

Silvia Levenson - Otros Cielos Otras Pampas

©Silvia Levenson – Otros Cielos Otras Pampas

Silvia Levenson - Otros Cielos Otras Pampas

©Silvia Levenson – Otros Cielos Otras Pampas

 

Tommaso Muzzi
K-FRAGMENT , a cura di Michela Becchis.


Secondo Spinoza qualsiasi frammento temporale può essere diviso all’infinito, in particolare in quel tipo di conoscenza che si associa alle immagini, all’immaginazione e al linguaggio. Tommaso Muzzi ha deciso di lavorare e di andare incontro a questa idea creando K-fragment un’installazione che diventa, tramite una sorta di deflagrazione spaziale, visibile in rapporto con la temporalità. Partendo dalla tecnica dell’animazione stop-motion, Muzzi ha lavorato su una sua ripresa video e ha bloccato alcuni fotogrammi trasformandoli in disegni, ha in seguito fotografato i disegni ritoccandoli in post produzione.

Questi iniziali fotogrammi, il tempo lunghissimo necessario al risultato finale, diventano una lunghissima sequenza temporale che si fa narrazione di una tragedia, quella della deportazione dei Truku. I Truku sono una popolazione aborigena di Taiwan che, negli anni 30 del Novecento, dalle alture dell’attuale Parco Nazionale Taroko furono interamente deportati dal governo coloniale giapponese lungo la costa orientale, i villaggi distrutti, il mantenimento della loro cultura impedito. K-fragment racconta a partire da quel preciso segmento di tempo in cui i Giapponesi hanno incontrato i Truku ed hanno iniziato la loro deportazione e la loro distruzione culturale.

Disegni di Jun Wai Quin

 

Tommaso Muzzi - K-FRAGMENT

©Tommaso Muzzi – K-FRAGMENT

 

Vikrant
RE-THINKING. WHAT IS HOME? JOURNEY FROM 1947-2018 | LAHORE-DELHI.


Ripensare il concetto di casa diventa primario per l’artista visivo Vikrant che ripercorre la memoria della propria famiglia partendo da vecchie foto e documenti ingialliti dal tempo, conservati in vecchi fogli di giornale.

La sua famiglia paterna è originaria di Lahore ma nel 1947, al tempo della Partizione, essendo induisti dovettero lasciare quella città in fretta e furia per emigrare in India. Tra il 15 agosto e l’8 settembre ‘47 circa 700 mila rifugiati attraversarono il confine tracciato sulla carta, avvolti nel buio della totale incertezza. Laxmi Devi, la nonna di Vikrant, riuscì a portare con sé una cassa con gli utensili da cucina che conteneva anche il ditale, il vaso per i fiori che lei usava come sputacchiera, l’attrezzo dentato per tagliare a mezzaluna i gustosi gujiya, un bicchiere di metallo e il maang tikka, gioiello che le spose del Punjab indossano in mezzo alla fronte.

Dal 2017 Vikrant sta sviluppando il suo complesso progetto sull’archivio della memoria che prevede installazioni, performance e libri, da cui hanno già preso forma la zine The story of mud House, realizzata nel 2018 in occasione del corso di storytelling organizzato da FICA-Foundation for Indian Contemporary Art & SAF e il video Journey from 1947-2018.

Altre due fasi complementari sono quelle rappresentate dai quaderni: nel primo è l’artista a ricostruire le vicende familiari riproponendo immagini dell’album di famiglia, appunti e fotografie degli oggetti; il secondo, invece, ha come protagonista suo padre Tulsi Ram. Anello di congiunzione tra passato e presente, Tulsi Ram scrive e disegna immagini che appartengono al repertorio di storie che gli aveva narrato suo padre Kallu Ram.

 

Vikrant - RE-THINKING. WHAT IS HOME? JOURNEY FROM 1947-2018 | LAHORE-DELHI

©Vikrant – RE-THINKING. WHAT IS HOME? JOURNEY FROM 1947-2018 | LAHORE-DELHI

– via: Art Vibes submission


– website: ” target=”_blank”>castelnuovofotografia.it


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